Fabriano è una delle poche realtà al mondo in cui ancora si fabbrica carta a mano, forti della storia di innovazioni di prodotto e processo che nel medioevo la resero famosa al mondo.

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Poche città possono vantare già a partire dal loro stemma un’attestazione storica come quella di Fabriano: “Faber in amne cudit, olim cartam undique fudit” (il fabbro sul fiume batte, un tempo la carta ovunque sparse) è la dichiarazione in calce all’insegna comunale di Fabriano, che sottolinea il primato internazionale raggiunto dalla cittadina marchigiana dal XIII secolo a oggi nella produzione e commercio della carta.
Perché il nome della città di Fabriano, ancor più oggi che il “distretto industriale del bianco” ha intrapreso la via del tramonto, è indissolubilmente legato alla carta. Nonostante il gruppo Fedrigoni, proprietario del brand Fabriano, sia stato acquisito da un fondo di investimenti statunitense. Nonostante le banconote euro che a Fabriano si producevano oggi escano dalle rotative di una cartiera statale francese. Nonostante i 150 esuberi su 300 dipendenti previsti nelle cartiere della città sul fiume Giano. Nonostante tutto, se dici “Fabriano” pensi ancora “carta”.
A Fabriano si realizza anche la carta a mano, come nel Medioevo, quando questa era la Silicon Valley d’Italia. Non sono molti i mastri cartai in grado di produrre ancora questi fogli, si contano sulle dita di una mano e ognuno di questi lamenta l’assenza di un seguito malgrado da ogni parte del mondo sia forte la richiesta di imparare a fare carta artistica a mano. Quello che manca è, forse, un’organizzazione lungimirante, o una visione orientata al marketing che non comprometta l’artigianalità e la qualità del prodotto. Ma il carattere marchigiano, umile e schivo, è da secoli più orientato a conservare che a diffondere. Anche se quasi un millennio fa, in quel di Fabriano, il fabbro che batteva sul fiume sparse la carta ovunque nel mondo conosciuto.

La carta a Fabriano

La carta non fu un’invenzione fabrianese, in Cina ne facevano uso già mille anni prima di noi, ma nei primi secoli del vecchio millennio gli arabi, che avevano sottratto ai cinesi il segreto della produzione impossessandosi di Samarcanda e le sue manifatture con la battaglia del Talas nel 692, diffusero questa tecnica nei paesi mediterranei, dalla Spagna all’Italia. Alle fibre vegetali delle fabbricazioni originali, gli arabi sostituirono in questa carta detta “Bambagina”, stracci di canapa e tela, triturati e ridotti a poltiglia dopo la macinazione con pietra e mortai. Uno strato di colla vegetale, amido di riso o di frumento perlopiù, rendeva la superficie di questa poltiglia assottigliata scrivibile.

La pila a magli e la colla animale

Le colle vegetali avevano un grosso limite: rendevano i foglio vulnerabile, attaccabile da microorganismi, quindi condannavano il supporto al deterioramento, nel tempo. Federico II ne vietò addirittura l’uso per gli atti pubblici, che dovevano continuare ad essere in pergamena per garantirne la sopravvivenza a lungo termine, e in parte questa fu una fortuna per Fabriano: molte altre realtà produttrici di carta, soprattutto costiere, abbandonarono questa produzione per dedicarsi ad altri affari più remunerativi e meno problematici, ma i mastri cartai fabrianesi non si diedero per vinti e, alla fine del XIII secolo, applicarono per la prima volta, due innovazioni tecniche fondamentali.
La prima, un’innovazione di processo, fu la sostituzione della macina e del mortaio per pestare gli stracci con la pila idraulica a magli multipli, macchina di loro invenzione azionata da un albero a camme mosso da una ruota che girava nelle acque correnti del fiume Giano. Ciò ridusse di molto i tempi di triturazione dei cenci e permise un notevole incremento produttivo. La seconda innovazione, questa volta di prodotto, fu l’uso della colla di carniccio animale in sostituzione di quella vegetale; il territorio era ricco di conciatori, che scartavano questo lato della pelle attaccato alla carne degli animali e lo cedevano volentieri ai cartai che lo lavoravano per dare una migliore collatura e lisciatura al foglio, rendendolo soprattutto resistente all’azione dei microorganismi.

La filigrana

Dopo la sostituzione nelle “forme” (i setacci utilizzati per prelevare la pasta dal tino con il “pisto”, la poltiglia di cenci a bagno nell’acqua), dei giunchi e delle lamelle di canna con fili metallici o “vergelle”, fieri delle innovazioni che avevano salvato il loro mestiere, sul finire del Duecento i mastri cartai fabrianesi iniziarono a contrassegnare la carta da loro prodotta con un marchio di fabbrica, la filigrana, il segno della carta impresso dal telaio all’interno del foglio. Questo terzo elemento ha reso Fabriano famosa nel mondo allora conosciuto e ancora oggi, in ogni banconota che maneggiamo, c’è in controluce l’eredità di quell’innovazione di prodotto.
La carta prodotta a Fabriano iniziò ad essere esportata in tutta Europa, le maestranze locali aprirono botteghe all’estero e la carta prese gradualmente e completamente il posto della costosa e scarsamente disponibile pergamena. A metà del Trecento erano una cinquantina le cartiere lungo il fiume Giano e nei dintorni.

Dalla stampa alla cellulosa, dal Giano alle cartiere Miliani

La grande disponibilità di carta immessa nel mercato a metà Quattrocento fu il presupposto per la messa a punto e la diffusione internazionale della stampa a caratteri mobili. Lo stesso Gutenberg stampò a Magonza, a partire dal 1453, la sua Bibbia a 42 linee su carta di canapa prodotta secondo i metodi fabrianesi.
La stampa, che non è stata un’invenzione di Gutenberg ma non era certo, fino ad allora, un processo industriale, non avrebbe avuto alcuna possibilità di sviluppo senza il supporto della carta. Questa e quella, la carta e la stampa, si alimentarono a vicenda per secoli. Tale ne fu, a partire dal tardo Medioevo, la richiesta che la materia prima – i cenci – venne implementata fino a che a metà Ottocento fu sostituita con la cellulosa.
Le innovazione fabrianesi furono superate, nei secoli, dalle conquiste della tecnica raggiunte in molte parti del mondo, a partire dalla pila olandese fino alla macchina per carta continua francese, che spostarono i centri di produzione dal sud al nord dell’Europa. Complici la pessima amministrazione e l’instabilità politica tra Settecento e Ottocento, la mancanza di interventi pubblici e l’eccessiva disgregazione della produzione della carta sul territorio, l’industria cartaria fabrianese era prossima alla rovina.
Questo declino poteva essere fermato solo dall’unità dei produttori e dall’efficienza dell’organizzazione del lavoro: la fabbricazione della carta, da Fabriano, nel Medioevo si era estesa su tutto il territorio e anche oltre; nelle vallate adiacenti, come in quella del Potenza dove acqua corrente ce n’era in abbondanza, a Pioraco già nel Trecento numerose piccole gualchiere lavoravano da “terzisti” per Fabriano o producevano carta per i Varano, signori di Camerino. Pietro Miliani salvò da sicura rovina l’industria cartaria fabrianese, riunendo nel 1782 le molte piccole cartiere del territorio nelle Cartiere Miliani Fabriano, oggi Gruppo Fedrigoni, di cui ancora oggi fanno parte. Quindi restituì competitività e qualità alla produzione, fiducia ai cartai e lustro alla Città della carta.

Un ritorno al passato

Una storia, quella della carta, sempre affascinante da raccontare, ma ancor più d’effetto è vedere all’opera, oggi, un mastro cartaio che realizza carta fatta a mano come si faceva nelle medievali gualchiere del fabrianese.
Al Museo della Carta e della Filigrana di Fabriano si può assistere ogni giorno a questa dimostrazione, e diversi progetti stanno prendendo piede nella cittadina tra Marche e Umbria per ricreare la filiera storica della produzione del libro, dalla carta alla stampa alla scrittura alla legatoria storiche. Nuove professionalità si stanno convertendo a questo ritorno al passato con consapevolezza e convinzione, certi che il futuro di un’area in crisi industriale da vent’anni possa passare solo per la riqualifica e la diffusione di un processo e un prodotto che hanno reso Fabriano conosciuta nel mondo, quando “olim cartam undique fudit“.